TRIESTE – Momenti critici, grandi progetti da far partire e un futuro da manager. Zeno D’Agostino, che dal 1 giugno non sarà più presidente dell’Autorità di sistema portuale che governa i porti di Trieste e Monfalcone, ha tracciato i futuri scenari per lo scalo internazionale e per la logistica regionale. Lo ha fatto in occasione del commiato davanti ai soci del Propeller Club di Trieste, in gran parte operatori portuali.
La storia di un decennio di incarico è stata tracciata da tappe significative e impegno continuo, per rilanciare un sistema non certo brillante. Ma qual è stato il momento più critico di questi anni a Trieste?
«Ad un certo punto eravamo con le barricate (proteste dei no-green pass durante la pandemia, ndr) davanti al porto, avevamo persone che da tutta Italia venivano e avevano in mente che si doveva fare la rivoluzione e quant’altro e avevano scelto il porto di Trieste come loro luogo, diciamo, di battaglia. Questo è stato secondo me il momento peggiore, anche perché qualcuno ha ritenuto che il porto non fosse più l’obiettivo delle proprie attività, ma diventasse invece lo strumento, cosa che io ho sempre cercato di non fare. Per cui ecco, ritengo che il momento peggiore sia stato quello dove si è capito chi pensava che il porto fosse a disposizione dei propri fini, e chi invece, coerentemente, ha continuato a pensare che il porto era l’obiettivo di tutte le sue visioni strategiche».
Qual è stato, invece, il momento di maggior soddisfazione, per essere riusciti a fare qualcosa o ad ottenere qualcosa?
«Il tema della doppia manovra (ferroviaria, all’interno del porto di Trieste, questione che faceva lievitare i costi, ndr) secondo me è stato un bel test per far capire che certe cose che volevi fare, che avevi in testa, si potevano anche applicare. E davi un segnale forte alla città, al porto, su un tema che in qualche modo ti era stato presentato come un tema quasi irrisolvibile. Comunque, per arrivare alla doppia manovra si è dovuto procedere all’annullamento della fase di privatizzazione di Adriafer. Quando io sono arrivato, Adriafer era in liquidazione, indebitata, nonostante l’Autorità portuale ne fosse proprietaria al 100%. Penso che quello sia stato un momento decisivo perché ha dato tanti messaggi al porto e anche a me stesso: cioè che le cose che si pensavano poi si potevano realizzare».
L’Authority ha nel cassetto una serie di progetti che valgono circa un miliardo di euro. Cosa resta da fare, che cosa ci si aspetta in questi mesi a venire?
«Diciamo che ne abbiamo una serie. Non infinita, ma insomma una serie importantissima di cantieri che stanno partendo e che sono cantieri privati e cantieri del pubblico. Abbiamo circa mezzo miliardo di euro di finanziamenti su cantieri che sono distribuiti su varie aree del porto. Mi permetto di dire che noi abbiamo fatto una scelta ben precisa quando siamo partiti chiedendo a Roma i finanziamenti del Fondo complementare. È stata una scelta diversa da quella di tutte le altre Autorità, nel senso che noi abbiamo chiesto fondi pubblici che poi vedevano una integrazione con finanziamenti dei terminalisti. Questo avviene sul Molo VII, sulla Piattaforma logistica, nell’area di Servola, nell’area degli ungheresi (Adria Port, ndr), questo avviene in tutti i progetti di cold ironing che stiamo facendo in tutti i terminal. Non commento Genova, commento però due modelli diversi: quello di investire su un’opera fredda, che chiaramente è la grande diga che poi serve al porto e che non genera reddito, e invece la scelta che ha fatto Trieste, dove ci sono anche i fondi di RFI con più di 200 milioni sul porto».
In estrema sintesi, nel Nord Adriatico, Capodistria sta marciando piuttosto bene, Fiume sta per inaugurare il secondo terminal container, Venezia non gode di ottima salute. Qual è, ad oggi, la prospettiva di collaborazione tra i porti dell’area?
«Diciamo che sono modelli di gestione portuale diversi. Quindi, a prescindere dal fatto che appunto LuKa Koper o Luca Rijeka (le due società che gestiscono gli scali di Capodistria e Fiume, ndr) possono decidere quali sono i loro compagni di avventure, in un modello landlord come il nostro sono i singoli terminalisti privati che decidono se fare alleanze o meno con i porti che stanno da qualche altra parte. Però, è da nove anni che dico che non possiamo fossilizzarci sul settore container. Ci sono, quindi, tutta una serie di elementi di scenario strutturale. Per strutturale intendo da qui a dieci, venti, trent’anni, perché questi sono i margini temporali su cui fare affidamento per fare determinati investimenti nel nord Adriatico. Per arrivare a questo scenario la prima cosa è che Suez deve funzionare. E siccome l’ultima volta che Suez non ha lavorato, è stato fermo sette anni… Chiaramente sto usando lo scenario peggiore. Però questi sono i tempi con cui si costruiscono le infrastrutture e quindi su questo margine temporale all’interno del Nord Adriatico hai uno scenario che è chiaramente uno scenario positivo. Il tema vero è capire se da qui a sette, otto, dieci, vent’anni lo scenario industriale manifatturiero a livello globale rimane lo stesso. Nel 2023, per la prima volta negli ultimi venti anni, il Messico ha superato la Cina nelle esportazioni sugli Stati Uniti. Questo significa che quando si fanno i ragionamenti su reshoring, near shoring, back shoring, non si sta facendo solo filosofia, sono cose che si stanno effettivamente muovendo. Se ci sarà una ricollocazione dell’industria, su quella si fanno dei ragionamenti. La Turchia è probabilmente il Paese che gode di più di questo reshoring. Ma poi a ruota ci possono essere Egitto e Marocco. All’interno di uno scenario Mediterraneo, non è il container che riesce a presidiare meglio questo tipo di dinamiche. Resta da capire se certi terminal possono avere una doppia funzione, sia container che Ro-Ro. Questo secondo me è un tema fondamentale per chi deve fare investimenti».
In relazione ad uno dei suoi cavalli di battaglia, l’unione tra l’industria e porto, Trieste potrebbe giocarsi una carta in più, in scenari come quello del reshoring: il regime di Porto franco internazionale. Ma qual è il futuro dell’alto valore aggiunto che potrebbero portare la manipolazione delle merci, o altre prerogative di un regime unico in Italia?
«Dipende dal peso dei soggetti coinvolti, sia pubblici che privati. È chiaro che oggi, con una MSC che chiede determinati diritti del Porto franco di Trieste, si sta giocando una carta pesante. Mi ha sempre fatto un po’ sorridere, quando andavo a perorare la causa del Porto franco, che mi si dicesse che non si possono fare le cose. Sorridevo perché dicevo dentro di me: stanno sottovalutando dove sta andando il mondo. Il mondo sta andando verso una situazione di emergenza, non di ordinarietà. Quando tu cominci ad avere un mondo che si divide in blocchi, se tu ti trovi un documento scritto 300 anni fa, piuttosto che 70 anni fa che dice che tu hai determinati diritti, a quel punto quella cosa la puoi far valere molto di più. Più andranno avanti i conflitti e più comincerà a saltar fuori che a Trieste certe cose si possono fare, perché durante un periodo di conflitto che non deve essere per forza una guerra calda, può essere una guerra fredda, avrai bisogno di luoghi in cui certe cose si possono fare ed è per questo che secondo me, più passa il tempo e più ci si deve credere, perché la situazione di scenario ad un certo punto imporrà anche a Bruxelles di fare dei ragionamenti dicendo: beh, ma da qualche parte in giro per l’Europa certe cose le dobbiamo fare».
La Regione Friuli Venezia Giulia ha un modello di logistica regionale per coinvolgere l’intero territorio e per utilizzare il porto di Trieste con una visione più ampia. Questo progetto, però, non è stato delineato in maniera formale. Una legge regionale potrebbe essere utile o necessaria per delinearlo?
«Cosa dovrebbe dire la legge? Nel senso, a prescindere che possa finanziare qualcosa e allora potrei anche pensare che sia utile. Però, per quanto mi riguarda abbiamo fatto azioni imprenditoriali di aumento del nostro peso all’interno delle infrastrutture interportuali. Non avevo bisogno di una legge per fare quello che abbiamo fatto. Qua c’è solo bisogno di rischiare e fare l’imprenditore. E gli imprenditori, soprattutto italiani, se dovessero stare lì ad aspettare una legge… Il pubblico deve avere un po’ più di libertà rispetto a queste azioni. L’ampliamento del sistema di integrazione lo fa il soggetto pubblico, a garanzia e tutela di quelli che sono gli interessi privati che poi vengono coinvolti. Quindi lì probabilmente, come ho già detto più di qualche volta, ci sono alcune norme nazionali che andrebbero riviste, che danno dei vincoli alle attività delle Autorità di sistema. E mi si chiede di una legge regionale, no, non me ne frega niente. Servono leggi dello Stato che dicano dove possono andare i porti. E a quel punto, se un porto ha voglia di fare certe cose le deve fare, perché questo è un periodo storico critico».
Le crociere a Trieste e Monfalcone. Dove si va? Qual è lo scenario prevedibile? È stato raggiunto il top per quanto riguarda numero di passeggeri, resta da fare qualcosa?
«Abbiamo una società (Trieste terminal passeggeri, ndr) che ha un Ebitda e un utile spaventoso. È il primo terminal crocieristico italiano. Nessuno ha il rapporto utile/fatturato del terminal crociere di Trieste. Quando sono arrivato, c’era una TTP che tutti chiamavano “Trieste terminal parcheggi” e che aveva fondamentalmente un fatturato, un utile e quant’altro collegato ai parcheggi. Bene, mi sono studiato il verbale dell’Assemblea e noi oggi facciamo il 77% del fatturato con le crociere.
C’è stato il Covid, Venezia ha avuto i suoi problemi, però il dato è questo: la società va molto bene, tant’è che è in grado di fare e di finanziare quelle che sono le proprie attività di investimento e questo è un elemento positivo. È chiaro che le crociere sono inquinanti, altrimenti non metteremo 130 milioni per finanziare il cold ironing. E poi gli investimenti sulla smart grid, che non facciamo noi ma che fa Hera-Acegas (distributore dell’energia elettrica sul territorio, ndr). Stiamo progettando anche il cold ironing per il Porto Vecchio. Quindi ipotizziamo che, da qui a due tre anni, si potrà pensare che buona parte di quelle navi si attaccano alla spina senza fare più i fumi. Però, se uno gestisce una città, si deve chiedere: ma quanti benedetti passeggeri fate all’anno, quanti ne posso prevedere l’anno prossimo? E allora c’è solo da pianificare e capire come questi passeggeri si devono muovere, quando queste crociere verranno spostate. Noi stiamo facendo la nostra parte sia in termini di localizzazione delle navi sia in termini di riduzione totale dell’impatto di queste navi. Noi, più di mantenere quei numeri, di avere una bella società che finalmente fa crociere, non più parcheggi e basta, finalmente fa tanti utili. Queste son cose che vanno chieste a qualcun altro».
E il futuro di Zeno D’Agostino?
«Beh, intanto vado in crociera, perché è da nove anni che vorrei scendere col mio trolley e andare su una nave da crociera a fare la crociera con la mia famiglia, è una sensazione bella secondo me e non l’ho mai provata e quindi andrò in crociera a giugno a farmi un giro.
Il mio futuro non lo so ancora, so solo che sto con la mia famiglia e non so se loro han bisogno di me, ma io ho bisogno di loro, perché nove anni e passa son stati abbastanza tirati e tesi. Insomma, tante soddisfazioni, tante belle cose, ma anche tante responsabilità, tante sfide, più di qualche problema. Per cui insomma, adesso so che mi rilasso, poi dopo chiaramente ho bisogno anch’io di guadagnare. Farò qualcosa, ma ancora al momento non so dove. L’unica cosa che ho detto: non andrò a fare il presidente in nessun altro porto, perché per quanto mi riguarda quello che ho avuto a Trieste, le possibilità, le potenzialità, l’entusiasmo, la gioia e quant’altro ho avuto in questo porto, saranno impossibili da ricreare».